La tintoria
«Dagli scritti del compianto Mons. Giuseppe Celidonio si apprende che il Re di Napoli, quando fondò il lanificio in San Leucio, chiamò per insegnarvi l’arte del saper tingere e tessere, tale Colomba Mancinelli di Scanno. Infatti qui quest’arte in modo empirico e primitivo si conosceva benissimo da tempo immemorabile e i vari colori si ottenevano estraendone i principi dal regno vegetale e qualcuno da quello animale. Cortecce radici, foglie, frutti e semi erano le materie prime usate e dalla decozione, infusione e fermentazione ricavavansi le tinte desiderate. Per fissare queste ultime con mordenti si adoperavano, essendo prodotti chimici non conosciuti, persino lievito di pane, urine umane ed equine in decomposizione, aceto, liscivia, più o meno forte ottenuta dalla soluzione a caldo delle ceneri dei focolai e da quella delle alghe lacustri, vetriolo verde ed azzurro, albume, cortecce di melo granato e noci di galla. Questa proviene da escrescenze sulle foglie di quercia per la puntura dell’insetto Cinips Gallae Tinctoriae. Per i colori avana, beige e cannella si servivano del mallo delle noci; per il giallo e sue gradazioni della fuliggine raccolta dai tubi fumari e non vi era bisogno di mordente poiché il tannino del malto e il creosoto di essa lo supplivano essendo in questi contenuti. Altro giallo avevasi dalla decozione delle foglie tenere dell’Ornello con l’aggiunta di rametti che si raccoglievano in giugno dal locale Fraxinus Ornus. Questa operazione, lunga e costosa, si eseguiva nel suddetto mese all’aperto durante la intera nottata. Il processo per ottenere l’azzurro, bleu e sue gradazioni era per fermentazione e la sostanza principale era l’indaco, produzione nei tempi passati esclusivamente inglese ed esso si estraeva dalle foglie, cortecce e sottili rami dall’albero Indicofera Tinctoria che vegeta delle Indie, in Giava e nelle isole della Sonda. Questa sostanza veniva in commercio in pezzi di svariato volume entro sacchi di grosse pelli di capra detti “zurroni”. Oggi, però, ad essa è stato sostituito l’indaco sintetico, produzione tedesca, che viene venduto sotto forma di granelli entro mastelli di ferro. D’inverno le nostre donne preparavano dapprima una decozione con pallottole più o meno grandi di un’erba secca che gli olivendoli della Valle di Comino importavano. Indi mescolavano ad essa una certa quantità di soluzione di lisciva e questa miscela costituiva “ju ghiutte”. In esso si scioglieva l’indaco a caldo e poi si infondeva la lana previamente bagnata con lisciva. Si adoperava un caldaio di rame più o meno grande: la massa veniva mantenuta sempre ad un certo calore e dopo varie ore si osservava se essa avesse raggiunto il colore desiderato. I residui dell’operazione venivano conservati e si passavano in prestito a coloro ai quali occorrevano rifondendo, a loro volta, altro indaco e lisciva. In primavera queste operazioni si sospendevano: “ju ghiutte” veniva conservato e si riprendeva nell’autunno seguente. Ne derivava che, con questo metodo empirico, si consumava grande quantità di indaco il quale depositandosi nel fondo della caldaia e nei recipienti veniva poi disperso costituendo così uno sciupio. Alle volte accadeva, e veniva ignorato dalle donne operanti e poco pratiche, che, adoperando liscivia proveniente da vecchie ceneri e aceto molto blando, la lana non fissava il colore; per questa ragione si doveva tornare a ripetere l’operazione chiedendo parere alle più provette e non escludendo per la non riuscita il malocchio e le streghe. Questo procedimento appellavasi volgarmente “fare il vaso”. La colorazione dell’azzurro quindi, la più lunga e difficile. Per ottenere i vari punti di verde si infondeva il tessuto di lana, previamente colorato con l’indaco nella decozione gialla dell’ornello. Per il rosso scarlatto usavasi la decozione della radice della robbia, pianta erbacea rizonatosa locale (Rubia Tinctoria) acidificata con spirito di vetriolo; usando La sola lisciva con questa decozione si ottenevano le diverse gradazioni del cremisino, rosa e rosé a secondo dalla concentrazione. Per il Rosso vinoso-amaranto si trattava di tessuto con legno di campeggio in decozione con solo lisciva. Con la cocciniglia morellona (Cinips Purpurea) e la lisciva si aveva un bel cremisi e il grigio con la Cinips Grigia. Il legno di campeggio proviene da una pianta che vegeta nelle Antille e anche la cocciniglia vive in quelle isole. Accoppiando lo scarlatto e l’azzurro si ricavava il colore violetto e sue gradazioni, procedimento che richiedeva una certa pratica nel mescolare i due colori. Con soluzione di fuliggine mescolandovi il vetriolo verde (solfato ferroso) ottenevasi un nero non brillante e con decozioni di legno di campeggio e noci di galla altre due varietà di nero; se poi si aggiungeva al tessuto già tinto in bluette la suddetta decozione avevasi un nero carbonella. Il nostro benemerito Gr. Uff. Francesco Di Rienzo, cultore degli usi e costumi delle nostre genti, anni or sono si interessò molto per conoscere l’erba la cui decozione era servita per formare “Ju ghiutte”. Curò a sue spese a mezzo di vecchi pastori della valle del Comino le ricerche della suddetta erba ma esse furono vane. Per la tinta in azzurro, venuta a mancare questa erba, si è fatto uso solo della lisciva e la lana si è colorata ugualmente cosa che dimostra essere le erbe secche degli olivendoli una superstizione, o una falsa credenza o una speculazione commerciale. Oggigiorno con l’evoluzione dei tempi, con l’annientamento della pastorizia e produzione della lana e con l’entrata in commercio dei colori di anilina venduti in recipienti dosati, si ottengono con facilità e brevità di tempo tinte più vivaci di tutti i colori, ma meno resistenti. L’arte della tintoria secondo i metodi antichi è del tutto tramontato e le caldaie e i tini sono stati messi a riposo.»
Tratto da: Antiquus, (1955), “L’arte della tintoria”. La Foce, No. 8.